venerdì 31 agosto 2012

Cresta del Furggen - Cervino

Che sarebbe stata un'avventura già lo sapevamo, noi volevamo l'avventura! Ne abbiamo avuta una molto più grande di quella che potevamo immaginare.
Le informazioni che riusciamo a raccogliere sono poche e tutte uguali: lasciate perdere! Noi invece partiamo, in tre.
Il Cervino è una delle montagne più famose del mondo, ogni anno viene salito da centinaia di persone per le due vie normali, italiana e svizzera, entrambe molto addomesticate. Non è però una montagna facile, dalla cima non esiste la discesa comoda e veloce, la quota supera di gran lunga i quattromila metri, la roccia è cattiva e tutte le nuvole prima o poi si incagliano su questo enorme scoglio.
La nostra cresta, delle quattro, è considerata la più difficile (ma non la più bella) e la meno frequentata.
Passiamo la notte al bivacco Bossi, un cubo di latta sporco e umido, la sveglia suona alle tre e mezza ma partiamo solo alle cinque a causa del forte vento; ancora al buio superiamo il camino bagnato che porta alla base dei novecento metri di sfasciumi (e non scherzo) che ci separano dalla scalata vera e propria. La testa del Cervino si infiamma e noi procediamo cercando di rimanere sui blocchi più grossi e stabili. Siamo a circa centocinquanta metri dalla Spalla di Furggen e fino ad ora tutto è andato bene, di colpo però iniziamo ad essere bersagliati da pezzi di roccia e ghiaccio che piombano giù senza sosta e senza schema, per qualche minuto siamo incapaci di reagire poi capiamo che la via è quella giusta (non ci siamo spostati troppo sulla est, famosa per le sue tremende scariche) e che per forza dobbiamo attraversare questo tratto. Passiamo velocemente tutte le possibilità: la conserva che fino ad ora abbiamo utilizzato la scartiamo subito, saremmo solo un bersaglio più facile da colpire, slegarsi sarebbe un'idea ma non ce la sentiamo, ci decidiamo allora per i tiri cercando di passare il più rapidi possibili nelle zone esposte e di sostare in punti riparati. Non è facile, il terreno è ostile. Con non pochi spaventi però riusciamo a portaci al sicuro ma dobbiamo salire ancora due lunghezze su roccia schifosa e fango ghiacciato. Siamo finalmente sulla crestina nevosa della spalla, qui iniziano i tiri duri e da qui il tempo inizia a peggiorare sensibilmente, anticipando di parecchio le previsioni.
Tutta la zona delle scariche ci ha fatto perdere molto tempo ora però anche se il terreno è difficile, la via è abbastanza logica e la roccia migliora un po'. Scaliamo il diedro poi ci portiamo di nuovo sulla est e affrontiamo il muro fessurato che troviamo in parte ghiacciato, il passaggio che dovrebbe riportarci in cresta è totalmente intasato di ghiaccio, sono solo venti metri ma sono davvero impraticabili. Raggiungiamo la placca che tutte le relazioni dicono di evitare, esitiamo, non vediamo oltre e non abbondiamo di materiale, il meteo fa le bizze e ormai è abbastanza tardi. Scendere è una possibilità che qui non esiste... forse fino alla Spalla e poi in qualche modo raggiungere e percorrere tutta la cengia che taglia la parete est fino alla cresta dell'Hornli. Esporsi per tutto quel tempo alle scariche sarebbe da pazzi, lasciamo questa possibilità come ultima carta da giocare.
Chiamiamo il 118, risponde la Svizzera (per fortuna me la cavo con il tedesco) e spieghiamo la nostra situazione. Parte subito un tentativo ma la nostra posizione è sfavorevole e la nebbia si fa sempre più fitta. Per due ore rimaniamo fermi ad osservare l'elicottero che fa su e giù, ci gira attorno ma non riesce a raggiungerci. Riusciamo ad ottenere però un'importante informazione, sopra la placca c'è una specie di cengia che dovrebbe farci raggiungere la cresta e quindi la via giusta.
L'unica cosa che possiamo fare è provare a salire.
Salgo, la scalata è difficile, sosto in una fessura sabbiosa, la cengia è dieci metri alla mia sinistra, una liscia placca ancora ci separa. Recupero i compagni e intanto scruto la parete alla ricerca del passaggio "chiave". Mai più di adesso mi è chiaro il significato di passaggio chiave. Qualche metro più su scovo una fessurina, piazzando un friend dovrebbe essere possibile pendolare e raggiungere la cengia.
Tutto funziona, metto piede sulla cengia e la percorro per la sua intera lunghezza fino alla cresta, qui mi ricollego alla via, siamo sotto al Naso di Furggen!
Il meteo però continua ad impedire il soccorso e noi non possiamo fare altro che continuare a salire.
Le due ore fermi ci hanno stancato, il nevischio rende scivolosa la roccia e la nebbia ci disorienta. Anche mentalmente iniziamo ad accusare, è dalla zona delle scariche che non molliamo un attimo.
Superiamo il Naso e grazie al maltempo non percepiamo il grande vuoto creato dalla parete Sud che in questo punto precipita per più di mille metri. Ora le grandi difficoltà sono passate ma ancora parecchio terreno infido ci separa dalla vetta, la nebbia è sempre più fitta, il buio arriverà a breve e nelle nostre teste si concretizza (contro la nostra volontà) l'idea di un bivacco d'emergenza...
Continuo fino all'arrivo del buio poi quando non vedo più niente accendo la frontale ma è solo peggio, la luce che filtra nella nebbia mi fa vedere ancora meno. Non sappiamo dov'è la cima e anche dovessimo raggiungerla, la discesa in queste condizioni sarebbe davvero un grosso rischio. Siamo esausti, creiamo una piccola piazzuola dove sederci stretti uno all'altro, il tempo di finire il lavoro ed ecco che tutto il cielo si schiarisce e si vedono le stelle... Potremmo proseguire ora che la visibilità è migliore ma ormai siamo seduti e sopratutto è la testa a voler riposare.
Riposare non è però la parola giusta, né per la mente, né per il corpo. Possiamo solo cambiare canale nella nostra testa impostando la funzione resistenza e sistemare i nostri culi il più vicino possibile in modo da tenerci caldo l'un l'altro, non è questo il momento di fare gli schizzinosi.
Nove ore di buio, freddo e vento a quattromila quattrocento cinquanta metri ci attendono.
"E ora cosa facciamo? Ora soffriamo."
Appena viene luce dovrebbero venirci a prendere.
Ci spostiamo da una chiappa all'altra, battiamo le mani e muoviamo le gambe, non riusciamo a cantare o urlare, ci abbracciamo.
Arrivano le dieci poi le undici poi mezzanotte poi l'una poi le due poi le tre poi le quattro. Prima di arrivare alle cinque sembra che ripassino di nuovo tutte le ore... Aspettare le sei è una questione che diventa personale. Alle sei e trenta sorge il sole ma nel cielo limpido l'unica nuvola è proprio lì, a coprire il nostro desiderio di tutta la notte. Che beffa!
Però il meteo è buono e i soccorsi arrivano e ci portano giù.
Prendiamo il volo tutti e tre insieme e subito vediamo dove abbiamo dormito: venti metri sotto la cima!
E' incredibile, la sera prima non ci siamo accorti di niente e neanche la mattina abbiamo avuto la lucidità di alzare lo sguardo, il freddo ci deve avere davvero rintronati.
Voliamo, il Cervino ridiventa rosso come la mattina passata, noi ci abbracciamo ancora.

Avremmo potuto non fidarci del meteo e rimandare?
Avremmo potuto partire in due invece che in tre?
Avremmo potuto aspettare condizioni della cresta migliori?
Avremmo potuto scendere al buio?
Avremmo potuto portarci dietro il materiale da bivacco?
Avremmo potuto darci una bella svegliata la mattina, stringere i denti ancora e scendere con le nostre gambe?
Avremmo potuto fare un sacco di altre cose ma non le abbiamo fatte.

Voglio ringraziare i miei due compagni di corda, è stata un'esperienza umana estrema per quanto mi riguarda.
Voglio ringraziare assolutamente gli uomini del soccorso, persone incredibili, coraggiosi, forti e sopratutto preparatissimi e professionali.
Voglio ringraziare Walter Bonatti perché durante tutta questa vicenda hanno risuonato nella mia testa le sue parole: "Per salvarci dobbiamo rimanere calmi."
E poi voglio ringraziare Mark Twight che attraverso i suoi scritti mi ha insegnato a soffrire.

Avrei potuto anche scattare qualche foto del bivacco o dell'elicottero ma non l'ho fatto. Forse perché avevo le mani gelide o forse per egoismo inconscio, per tenere solo per me quei momenti così forti.









martedì 14 agosto 2012

Divine Providence

Una via, un sogno.
Sai che esiste ma fai finta di niente perché sembra sempre così lontana... poi un giorno di colpo hai in spalla lo zaino con tutto il necessario; in parte è materiale, in parte esperienza. Ma la cosa più importante  è la persona legata all'altro capo della corda, il tuo compagno. Di lui dovrai fidarti ciecamente per i giorni che verranno, con lui mangerai e dormirai, solo con lui riuscirai a tornare a casa.
Sono legato con il Tito, per la seconda volta importante dopo la nostra uscita di battezzo quest'inverno in Presolana.
Alla Fourche incontro con immenso piacere l'amico Franz che con Edo salirà la Kuffner, ci salutiamo e iniziamo le calate che ci depositano sul ghiacciaio della Brenva.
Qui inizia il nostro viaggio, entriamo nel regno della roccia e del ghiaccio, dobbiamo procedere veloci e in punta di piedi per non disturbare.
Attacchiamo lo zoccolo e dopo tre tiri prepariamo il bivacco con l'ultima luce, abbiamo trovato una comoda cengia riparata da un tettino. Psicologicamente questo è un grosso passo avanti, abbiamo in parte rotto la tensione, la nostra salita è entrata nel vivo. Tecnicamente invece tutta la parete ancora ci sovrasta con novecento metri di granito. Dormiamo indisturbati, non c'è vento e non fa troppo freddo.
Arriva la prima luce e calzo le scarpette, tiro io lo zoccolo e il Tito segue con gli scarponi e lo zaino più pesante; gli ultimi due tiri oppongono difficoltà ben superiori al V grado poi siamo alla base dello scudo. Ora si fa sul serio, il primo tiro è un ostico camino di 6a che ci chiarisce subito l'andazzo della via... Aiuto il Tito a recuperare gli zaini e arrivo in sosta affaticato, riparte lui per il primo tiro duro, pericoloso. La nostra progressione è in libera fin dove riusciamo e poi in artificiale senza pensarci due volte. La roccia è magnifica, rossa con funghi, lame e fessure. Salgo un tiro stupendo che porta alla base del grande diedro strapiombante, qui ci sono i due tiri chiave che portano in alto. Il diedro è tagliato in modo perfetto, fa paura, non si vedono punti deboli, solo una fessurina lo percorre per l'intera lunghezza. Il primo tiro è tecnico e difficile ma si fa scalare quasi tutto, il secondo è fisico, bagnato e la roccia non è bellissima, lo salgo tutto in artificiale ma gli ultimi metri devo scalarli e sono una lotta con l'equilibrio e la forza di gravità! Sono esausto, ci ho messo una vita e sotto il Tito sta congelando. Non posso fare altro che stringere i denti, ignorare il dolore alle mani e recuperare i sacchi, sono qui per questo. Sto facendo quello che voglio nella sua massima espressione.
Ancora fredde fessure e troviamo una stretta cengia con un po' di neve, decidiamo di passare qui la notte ma prima porto su la corda ancora per un tiro.
Cerchiamo di rendere accogliente questo balconcino, il vuoto impone la sua presenza ma noi non ci badiamo più di tanto, dobbiamo sciogliere la neve, cucinare e cercare di riposare. Anche questa notte il temuto vento ci risparmia, solo le urla cupe delle scariche e dei seracchi ci fanno tremare regolarmente nel sacco a pelo.
Il sole fatica ad arrivare, il cielo è velato e qualche nube già copre le Jorasses e i Dru, per un istante un brivido ci percorre la schiena. Confidiamo nel meteo e risaliamo la corda.
Un ultimo tetto ghiacciato e un tiro bastone di 6b+ e siamo alla fine dello scudo, per rocce rotte arriviamo in cresta; dal filo si può ammirare la solare e arancione parete est e la ghiacciata e grigia nord.
Mettiamo gli scarponi e saliamo con quattro lunghi tiri la cresta di misto che ci separa dalla vetta del Pilier d'Angle, gli ultimi metri per bellissima goulotte da salire con una picca e un incastro di mano!
Il Monte Bianco è seicento metri più su, sono le dodici e ora più che mai non dobbiamo abbassare la guardia, il terreno è infido e siamo stanchi. Una cresta di misto non banale porta alla ripida rampa nevosa che culmina con il Monte Bianco di Courmayeur. Ci imponiamo un ritmo, come delle macchine facciamo un passo alla volta, l'errore non è contemplato, ad attenderci c'è solo una ripida parete di ghiaccio che si perde nella nebbia.
Un paio di volte ci scivola un piede e la corda diventa elettrica, siamo legati unicamente per sapere di non essere soli.
Il vento spazza via le nubi e sopra di me vedo la cornice che segna il confine tra verticale e orizzontale, la supero e mi stendo per qualche secondo, arriva il Tito e fa lo stesso.
Il vento è gelido, ci dividiamo le tre ultime albicocche essiccate e camminiamo verso il punto più alto.
Sono le tre, un'anonima cresta di neve, nessuno in giro, solo qualche pisciata ghiacciata, questa è la mia vetta del Monte Bianco, finalmente ci sono arrivato e l'unica cosa che voglio ora è scendere.
Credo che questa sia la più grande dimostrazione del fatto che è il viaggio ad avere valore e non la meta.
Scendiamo di corsa alla Vallot con l'intenzione di fare un the ma appena aperta la porta assistiamo ad uno spettacolo disgustoso, l'intero pavimento è ricoperto da spazzatura, la puzza è forte e i tre corpi nei sacchi a pelo neanche ci salutano, senza esitare usciamo e riprendiamo la discesa fino al Rifugio Gouter. Anche qui l'accoglienza non è delle migliori ma a caro prezzo una zuppa calda e un po' d'acqua ci viene data. Dormiamo ma nella camerata ci manca l'aria, le persone maleducate rovinano il nostro sonno, rimpiangiamo la cengia nel vuoto. Di prima mattina perdiamo quota e lentamente ritorniamo nel mondo comune. Chamonix con il suo turismo di massa è frastornante, per fortuna rapidamente riusciamo a tornare alla macchina a La Palud.
Ci cambiamo e lanciamo gli ultimi sguardi alla parete e alla via che abbiamo salito, dal parcheggio si vede benissimo, migliaia di persone ci passano sotto ma pochi ci fanno caso.
Qualcosa ci è successo in questi giorni, nel tentativo di scoprirlo ci scoliamo una meritata birra!


"A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle."
Divina Commedia, Canto XXXIII del Paradiso


































Diretta del Popolo - Pizzo Badile

Ho sognato per anni ad occhi aperti sulle foto del suo sito... Ora stiamo salendo in Gianetti per scalare insieme sul Badile, lui è Lorenz! 
Con noi salgono anche il Ben e la moglie Giovanna e in rifugio incontriamo Andrea che verrà raggiunto nella notte dal Butch, siamo una bella banda, tutta diretta alla Est-Nordest! Raggiungiamo il colle tra Cengalo e Badile e subito l'ambiente si fa severo... con quattro doppie non banali tra gli sfasciumi arriviamo all'altezza della nostra via, il Ben prosegue per attaccare la Felice Battaglia! Il chiodo giallo con cordone si fa desiderare... poi il Butch lo scova e allora si parte! Primo tiro, fessurine bagnate e roccia così così, VI+, ottima sveglia! Si continua in fessura e salendo la roccia asciuga, anche il sole è arrivato a scaldarci. Con apparente illogicità la via abbandona una fessura bellissima per attraversare in placca... Il Fazzini ha visto lungo perché i tiri che seguono sono uno più bello dell'altro, per grosse lame e un traversino si raggiunge il magnifico diedro finale che si scala tutto fino a sbucare (dopo un run out in placca e uno strapiombino ostico) in cresta. Da qui veloci in cima.
Che soddisfazione raggiungere il Badile per la prima volta con una compagnia così allegra e per una via così bella! Un gran ridere tutto il giorno! Scendiamo per la normale e dopo vino e bresaola, ormai al buio, torniamo a valle.
Si è conclusa una giornata stupenda e piena, con Lorenz ci siam trovati e spero di rilegarmi presto con lui per un altra avventura!









 












martedì 7 agosto 2012

Never Quit

Esperienze vissute nell'ultimo mese, tentativi, momenti passati con i compagni di corda e lunghe ore da solo. 

Placca granitica spaziale incisa da una vena di quarzo perfetta che esige un ristabilimento ostico... Damiano, volo!!! Arrivo quasi in sosta, il cuore pompa a mille... Uhhhh! Non mi sono rotto niente, solo una gran botta e qualche sbucciatura; i miei airbag sono stati la macchina fotografica, il secchiello e un moschettone che ora sono da buttare! Ho perso anche gli occhiali che per fortuna ritrovo intatti a base parete sull'unica chiazza di neve rimasta.
Siamo al terzo tiro di Luce del Mattino all'anticima dell'Averta. Si scende. Mentre mi calo penso già ai movimenti che farò di ritorno su questa placca.


Mi chiama David e mi propone il Pesce, ci sto. Siamo entrambi neofiti dolomitisti ma non importa, abbiamo solo voglia di scalare. Lui torna dalla Germania, io preparo al volo il saccone (errore!) e siamo già a Malga Ciapela con il naso all'insù. Una birra così così al rifugio e poi andiamo a passare la notte con due slovacchi in una grotta. Partiamo decisi, non sempre la via è evidente ma cerchiamo di tirare dritto passando su lame rimbombanti e schivando proiettili che arrivano dall'alto. Arrampicata mai banale ma non è questo il problema... Il saccone da recuperare ci sta uccidendo lentamente, non viene. All'inizio delle vere difficoltà prendiamo atto della situazione e ci caliamo. 
Il giorno successivo, belli leggeri e senza impicci, ci godiamo finalmente l'arrampicata su questa immensa muraglia salendo Tempi Moderni fino in cengia. Poi scendiamo (che bello scalare di nuovo il traverso!) e iniziamo il lungo viaggio di rientro a casa.


Passo quasi due settimane a Milano lavorando in pizzeria. Il resto del giorno (e della notte) faccio slackline con gli amici brasiliani.



Aspetto ancora un paio di giorni poi al Bianco sembra venir bello... Parto, questa volta da solo e in giornata; lascio Milano alle tre di notte, alle cinque posteggio e alle sei e mezza sorseggio un the caldo preparatomi dai gentilissimi gestori del Rifugio Borelli. Voglio salire la cresta Sud dell'Aiguille Noire, sono venuto leggero, l'idea è di salire e scendere veloci. Ho una corda, qualche moschettone, due friend, qualche metro di kevlar, un litro d'acqua, due barrette, giacca a vento e un telo d'emergenza da bivacco (forse più psicologico che altro). Insomma o la va o la spacca, mi sono imposto prima di partire che al primo segnale di brutto sarei sceso. Poche storie. Lascio il rifugio confortato dall'idea che i ragazzi seguiranno per intero la mia salita con il binocolo. Calzo subito le scarpette anche se all'inizio il terreno è facile. Sono a mio agio, non fa freddo, trovo la via, mi muovo bene. 


Mi lascio alle spalle la Punta Gamba e salgo, prima per placche poi con arrampicata più esposta, verso la Bifida. Supero qualche passo più impegnativo e qualche volta devo cercare la via ma vado su sempre bene. Raggiungo l'intaglio tra la Bifida e la Welzenbach e per la prima volta prendo fiato e butto l'occhio sul versante Monzino. Ci sono le nuvole e sono basse e grigie, mi guardo un po' attorno e vedo grossi nuvoloni bianchi questi però non mi preoccupano. torno qualche metro indietro fino sotto la Bifida, dove c'è una comoda cengia. Aspetto mezz'ora, le nuvole grigie non vanno via e ora anche la mia cima è coperta.


Chiamo il rifugista e gli chiedo se ha già l'aggiornamento meteo, non ce l'ha. So che oggi era previsto bello stabile almeno fino al tardo pomeriggio però Io, Oggi, Qui, Così non posso fidarmi e gli comunico la mia volontà di tornare giù.


Mi calo e dove posso disarrampico, ci sono parecchie soste, non tutte buone. Più in basso dove è facile ma il terreno è più infido lascio qualche cordino e miglioro un paio di soste. Sono di nuovo alla base, ho impiegato il doppio del tempo che ci ho messo a salire. Una discesa per niente banale, se avessi dovuto ritirarmi da più in alto per cattivo tempo sarebbe stata una bella ravanata. Ora chiaramente il tempo è splendido, cielo blu senza una nuvola, il meteo era corretto. Sono convinto di aver fatto comunque la giusta scelta.


Torno al rifugio e passo un paio d'ore con i simpatici ragazzi che a turni e in modo volontario tengono questo bellissimo nido d'aquila. Grazie!
Scendo di corsa e via a Milano.

Riposo un giorno e poi riparto. Vado al mare in Vespa!
Meta è Finale Ligure, sono solo però al portapacchi è saldamente ancorata la mia sacca contenente corda, scarpette e magnesite! Passo dal Paretone ma il clima è tropicale, dopo un tiro sono fradicio, gli occhiali sempre appannati ed è impossibile fidarsi dei piedi... Mi sposto allora in spiaggia con pizza e focaccia a scambiare due chiacchiere con Pino il bagnino, faccio una nuotata e nel pomeriggio vado a Capo Noli curioso di provare il Traverso. Scoprirò che di traversi ce ne sono tre, scalo il più facile tre volte avanti e indietro, è una figata! Mi concedo anche qualche tuffo in mare! Altre due chiacchiere con simpatici locali e poi mi scolo un litro di coca cola in paese e riprendo l'autostrada, questa volta in infradito, costume e canottiera. Questa è vita.